L’anno in cui il globalismo è andato in frantumi

0
Imperier kommer og går. Her Romas fall.

Spesso è difficile comprendere le svolte della Storia mentre esse sono in atto. Di norma le si coglie meglio a posteriori. Ciononostante ho l’ardire di sostenere che il 2016 è stato l’anno in cui il globalismo è andato in frantumi. Fino a questo momento sia i paladini sia gli avversari hanno considerato il progetto dei globalisti come qualcosa che avrebbe seguito implacabilmente la linea prefissata spazzando via ogni tipo di resistenza. In effetti è stato anche così. Il globalismo non costituisce soltanto un indirizzo politico. È innanzitutto il capitalismo di oggi. Che è globale. Le multinazionali sottomettono il mondo e pari a un mostro irresistibile distruggono le nazioni e i popoli dilaniandoli sotto i loro potenti ingranaggi.


Articolo originale qui. Traduzione dal norvegese: Margherita Podestà Heir


Nessun binario prestabilito

Ma come è sempre avvenuto in precedenza, anche questa volta riceviamo la conferma che la Storia non segue binari prestabiliti. Il tentativo del capitalismo di assoggettare sotto di sé tutto il mondo è una tendenza oggettiva. Segue il bisogno insito nel capitale stesso di garantire un’accumulazione eterna di capitale. Come scrivono Karl Marx e Friedrich Engels nel “Manifesto del Partito Comunista”: “I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante che abbatte tutte le muraglie cinesi”.

Da questo punto di vista la situazione risulta dunque irresistibile. Come scrivono ancora Marx ed Engels la borghesia assomiglia “al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell’industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione”.

La globalizzazione incappa dunque in conflitti creati dal capitalismo stesso, che non è in grado di risolvere, e che creano devastazioni e caos. Che la repressione di classe accentui e fortifichi la lotta di classe, è espressione di questo rapporto. Ma neppure il capitalismo si sviluppa in modo omogeneo. Alcuni Stati capitalisti emergono, altri sprofondano e i conflitti esistenti tra di essi sono già sfociati in due guerre mondiali e in una serie di altre guerre e conflitti.

Soprattutto adesso, nel momento in cui il capitalismo si trova in molti dei paesi leader in uno stato di recessione duratura, addirittura di depressione, devono obbligatoriamente scaturirne violenti conflitti. Come dice il proverbio norvegese “Quando la mangiatoia è vuota, i cavalli si mordono a vicenda.” Qui parliamo di conflitti all’ultimo sangue, di una questione di vita o di morte.

Non è passato molto tempo da quando nel 2014 Barack Obama ha tenuto un discorso in cui parlava del nuovo ordinamento mondiale che sarebbe giunto:

“Ma se la gente vede ciò che sta succedendo in Ucraina, e il modo in cui la Russia aggredisce i propri vicini finanziando e armando i separatisti, a quello che sta succedendo in Siria – le devastazioni che Assad ha causato alla sua stessa gente – al fallimento in Iraq sulla possibilità di giungere a un compromesso tra Sunniti, Sciiti e Curdi – benché stiamo valutando la possibilità di costituire un governo che sia realmente in grado di funzionare – alle minacce in corso dei terroristi,  a ciò che sta avvenendo in Israele e a Gaza – le preoccupazioni di una parte consistente della gente riguarda appunto la percezione che il vecchio ordinamento su cui si basava il mondo, non regge più e che non sappiamo ancora del tutto dove sia necessario porsi ai fini di istituire un nuovo ordinamento fondato su una serie di principi diversi che presuppongano un senso di comune umanità, che si basino su economie che funzionino per tutti.”

Gli Stati Uniti c’erano quasi riusciti

Rimasti l’unica superpotenza dopo la caduta dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti si sono serviti di questa posizione per cercare di sottomettere sotto di sé tutto il resto del mondo. Ciò è stato ottenuto attraverso trattati commerciali ineguali che tutelano gli interessi dei gruppi di capitale americani. E soprattutto attraverso guerre, colpi di stato, assassinii su commissione, minacce e corruzione. Inoltre si sono serviti di una sovra-quotazione del dollaro che si è abbattuta come un maglio su tutti gli altri Paesi. L’artiglieria leggera utilizzata in questa battaglia, è stata rappresentata dai mass media dominati dagli USA e dalla loro battaglia, estremamente ben riuscita, ai fini di controllare il modo di pensare della gente e quello di intervento e gestione da parte dei politici.

Gli Stati Uniti hanno condotto guerre in Afghanistan, Jugoslavia, Somalia, Iraq, Yemen, Libia e Siria, hanno fomentato un colpo di stato in Ucraina e fatto in modo che avvenissero cambi di regime in altri paesi. Ogni anno gli Stati Uniti compiono in Africa decine e decine di operazioni militari allo scopo di garantire il proprio controllo e quello dei gruppi finanziari. Gli Stati Uniti sono riusciti su larga scala a distruggere e a depredare la Russia sotto Boris Eltsin. E gli Stati Uniti hanno quasi completamente assoggettato l’Europa e ridotto le vecchie potenze coloniali come Germania, Francia e Gran Bretagna a vassalli.

Ma il progetto si è trovato con le spalle al muro

Senza mettersi troppo in mostra la Cina ha saputo trarre tutti i vantaggi dagli effetti della globalizzazione costruendo un’industria che è diventata per antonomasia “la fabbrica di tutto il mondo” e ha sistematicamente sviluppato le infrastrutture, la ricerca, la scienza e l’alta tecnologia in modo che il paese non rimanesse una nazione di esportazione di seconda categoria. Ciò è avvenuto in parte grazie ai fortissimi investimenti delle società americane. Il diverso rapporto di scambio instauratosi tra gli Stati Uniti e la Cina si è creato per via del bisogno del capitale americano di merci a buon mercato, ma ha dato vita a un sistema economico che implacabilmente rafforza la Cina a spese degli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti hanno dolorosamente imparato che la concorrenza globale non è sinonimo di gioco “a cui prende parte un unico giocatore”. Il “Make America great again” di Donald Trump è la disperata ammissione del fatto che gli Stati Uniti hanno perso nel gioco voluto da essi stessi.

Inoltre hanno fallito anche nelle loro guerre. Quella in Afghanistan, di cui noi non vediamo ancora la fine, rappresenta la guerra più lunga della storia americana. E il prezzo è enorme. Linda Bilmes, ex CFO del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti d’America, ha calcolato che i costi diretti e indiretti delle guerre in Iraq e in Afghanistan oscilleranno tra i 4000 e i 6000 miliardi di dollari. Questi calcoli sono stati pubblicati dall’Università di Harvard (parliamo di cifre che corrispondono a cinque- sette volte il Fondo Petrolifero norvegese).

Bisogna anche dire che gli Stati Uniti sono stati in grado di pagare la loro enorme macchina da guerra vendendo obbligazioni di stato alla Cina. Ma questa fonte si è prosciugata rapidamente dal momento che adesso la Cina si ritiene sufficientemente forte e pronta da sostenere una de-dollarizzazione dell’economia mondiale.

La guerra in Iraq è stata una catastrofe che continua a produrre miseria. Con la Norvegia in testa gli Stati Uniti hanno distrutto la Libia, ma i risultati di questa catastrofe continueranno ad abbattersi anche sull’Europa. Sul finire dell’estate 2015 sembrava che gli eserciti di jihadisti degli Stati Uniti avrebbero vinto la guerra in Siria, ma poi è intervenuta la Russia e adesso gli strateghi più brillanti degli Stati Uniti si rendono conto che la guerra è perduta.

L’anno in cui tutto si è mostrato in salita

Nel 2015 i cinque presidenti dell’Unione Europea hanno esposto un piano che intende abolire la democrazia nazionale all’interno dei paesi dell’ UE entro il 2025. Se l’avessero avuta vinta, i parlamenti nazionali dei paesi dell’Unione Europea a partire dal 2025 non avrebbero più potuto decidere sulle rispettive finanze pubbliche e sul bilancio dello Stato. I cinque presidenti sono il presidente della Commissione

Jean-Claude Juncker, il presidente del Vertice Euro, Donald Tusk, il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, e il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz. Nessuno di questi signori ha alle spalle un mandato democratico, ma sono abituati ad approvare direttive e provvedimenti, a cui si devono adeguare 500 milioni di persone.

Un anno e mezzo dopo possiamo affermare senza tema di smentita che non è più così. L’Unione europea che conoscevamo, non esiste più. L’Unione europea non è più “un’unione sempre più stretta” come viene descritta in modo così ottimista nei trattati, ma piuttosto come l’ha definita in maniera sarcastica The Economist “un’unione sempre più lontana.

Si sono succeduti un evento dopo l’altro. Alcune nazioni si sono ribellate alle politiche di Migrazione dell’Unione Europea. Si tratta di una politica che non trova appoggio nella maggioranza degli elettori di alcuni paesi, e che quindi prima o poi doveva scoppiare.

Lo strappo più netto è giunto con la Brexit, che ha sancito la volontà dei cittadini britannici di uscire dall’Unione Europea. Ciò ha fatto saltare il banco all’interno dell’UE. Se aggiungiamo la sconfitta riguardante il Partenariato Trans-Pacifico (TPP) e il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP), possiamo notare l’estensione dei problemi che hanno afflitto i globalisti nel 2016.

Altri fardelli che hanno pesato sull’Unione Europea sono stati la politica militare e le sanzioni nei confronti della Russia. Si tratta di politiche che sono in netta contrapposizione agli interessi oggettivi degli Stati europei, ma che vengono attuate nonostante una forte opposizione interna per via della pressione esercitata dagli Stati Uniti.

L’ex Primo Ministro Matteo Renzi non è mai stato eletto da nessuno. Ha ottenuto quell’incarico grazie a un accordo con Berlusconi che si potrebbe riassumere con un “io faccio un favore a te e tu ne fai uno a me”. Durante il suo mandato ha deciso di agire “alla Cameron”: chiedere il voto di fiducia ai suoi per ottenere la maggioranza necessaria per modificare la Costituzione. Purtroppo Renzi è diventato molto più simile a Cameron di quanto avesse pensato. La maggior parte degli italiani non desidera questi cambiamenti e Renzi ha subito una sconfitta stellare – a cinque stelle – dopo che la gente ha espresso il proprio netto no e Beppe Grillo e il suo Movimento Cinque Stelle sono costantemente in agguato.

Sembra poi che le elezioni presidenziali francesi verteranno su due candidati, entrambi sostenitori di una politica di distensione nei confronti della Russia e di collaborazione. Totalmente in contrasto con la dottrina impartita dalla Nato.

Perdono la guerra in Siria – e in Ucraina

Gli Stati Uniti, l’Occidente, la Turchia e le dittature dei Paesi produttori di petrolio hanno messo in atto una guerra con l’aiuto di mercenari jihadisti per distruggere la Siria. Il ruolo della Norvegia è stato quello di finanziare la parte più o meno civile di questa guerra, oltre a condurne una di carattere economico contro la Siria.) Nel 2015 la guerra sembrava sul punto di essere vinta, adesso invece pare che i jihadisti e l’Occidente stiano per perdere. Si tratta di un contraccolpo durissimo per gli imperialisti neocon che mette in evidenza in tutta la sua drammaticità il bivio a cui è giunta la politica internazionale.

Non è passato molto tempo dall’estate 2014 quando i neoconservatori americani hanno cercato di istigare la Russia per indurla a condurre una guerra in Ucraina. Nel febbraio 2014 erano loro i sobillatori del cosiddetto “golpe di Maidan” a Kiev, che promettevano alla gente mari e monti. Quello che hanno ottenuto invece, sono stati guerra, povertà, fascismo e l’insolvenza sovrana. Benché nessuno nella Nato abbia ancora il coraggio di dirlo, sappiamo che anche questa guerra è perduta. Saranno i contribuenti dell’Unione Europea (e della Norvegia) che dovranno sostenere di tasca propria la bancarotta che si troveranno in eredità.

La sconfitta di Hillary Clinton e del partito della guerra

Donald Trump era l’antagonista che i responsabili della campagna pro Clinton desideravano vivamente per esseri in qualche modo sicuri che la propria candidata venisse eletta nonostante la sua diffusa impopolarità. Vi erano coinvolti tutti gli istituti finanziari e di credito, Wall Street, l’industria delle armi, tutti i mass media più importanti. E tutti erano consapevoli del fatto che Hillary Clinton avrebbe incrementato la guerra in Siria e forse avrebbe attaccato le forze russe presenti in loco. Invece hanno perso. Donald Trump è un demagogo reazionario e capitalista, ma apparentemente si è reso conto che l’epoca degli Stati Uniti come “la nazione indispensabile” è finita.

Tutto questo scuote le basi su cui poggia la fedeltà all’interno della Nato. I leader europei della Nato hanno paura di quello che potrebbe succedere qualora perdessero la protezione degli USA. In prima persona hanno commesso crimini di guerra con la certezza che gli Stati Uniti avrebbero sempre fornito loro la copertura e il sostegno necessari, tenendoli lontani da qualsiasi tribunale internazionale. Adesso non possono esserne più così certi. Anche se le elezioni negli Stati Uniti non hanno portato a nulla, ci hanno comunque permesso di vedere che razza di patetici vassalli sono i leader europei.

E la Turchia, che possiede il secondo esercito più grande della Nato e che rappresenta il fianco vulnerabile della Nato a sud, flirta con l’idea di unirsi all’alleanza euroasiatica  nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai a stretto contatto con la Cina e la Russia.

 

E la macchina cinese continua a macinare instancabile

Deng Xiaoping aveva consigliato ai vertici del suo Paese di non mettersi troppo in mostra nella politica internazionale per non attirare l’attenzione. Il suo consiglio è stato seguito. Adesso l’economia cinese è la fonte più importante dell’attuale crescita mondiale e non solo il Paese ha istituito una propria banca dello sviluppo, ma punta sulla costruzione di una nuova via della seta – “una cintura, una via” – e investe in questo centinaia di miliardi di dollari. Se non ci sarà una grande guerra, all’incirca nel 2020 l’economia cinese sarà in termini assoluti più grande di quella americana. In quel caso la Cina avrà superato da un pezzo gli Stati Uniti anche come nazione basata sulla ricerca e sullo sviluppo. Oltretutto la Cina è il più grande partner commerciale e il più grande investitore in molti paesi che tradizionalmente sono gli alleati più stretti degli USA.

Ancora prima che si ripercorrano in dettaglio i punti salienti che hanno contrassegnato l’anno appena passato, possiamo affermare con certezza che il 2016  è epocale. Per i globalisti rappresenta l’anno in cui tutto si è mostrato molto arduo e in salita. Sappiamo già che questo avrà un significato enorme sotto il profilo della storia mondiale. Ma in che modo è impossibile a dirsi. Da tempo gli Stati Uniti conducono una guerra indiretta contro i propri “ alleati”, adesso questo conflitto può emergere con maggiore nitidezza. Può crearsi una situazione di “tutti contro tutti”. Vecchie alleanze salteranno, né nasceranno di nuove. Tutto questo avviene raramente in modo pacifico. Ma i periodi di caos sono anche periodi di possibilità. È più facile per i popoli sottomessi lottare contro dei nemici che sono divisi, che contro quelli uniti.

Forrige artikkelEU skjerper sensuren, vil ramme kritiske medier
Neste artikkelIS fortsetter ødeleggelsene i Palmyra
Pål Steigan
Pål Steigan. f. 1949 har jobbet med journalistikk og medier det meste av sitt liv. I 1967 var han redaktør av Ungsosialisten. I 1968 var han med på å grunnlegge avisa Klassekampen. I 1970 var han med på å grunnlegge forlaget Oktober, der han også en periode var styreleder. Steigan var initiativtaker til og første redaktør av tidsskriftet Røde Fane (nå Gnist). Fra 1985 til 1999 var han leksikonredaktør i Cappelens forlag og utga blant annet Europas første leksikon på CD-rom og internettutgaven av CAPLEX i 1997. Han opprettet bloggen steigan.no og ga den seinere til selskapet Mot Dag AS som gjorde den til nettavis. Steigan var formann i AKP(m-l) 1975–84. Steigan har skrevet flere bøker, blant annet sjølbiografien En folkefiende (2013).